L'avevo letto nel '93, in rumeno, due anni prima che uscisse presso Les Editions Gallimard da cui Tea Turolla ha fatto l'eccellente traduzione. Ma l'ho comprato lo stesso, appena uscito questi giorni in italiano presso Adelphi [1]. Cioran, forse più degli altri, è riuscito sempre a svegliarmi e in un certo senso a salvarmi.
Ho scelto qui sotto due sue risposte che le sento come mie. Sarei curioso di ricevere commenti sulle eventuali esperienze di abbandoni, anche temporanei, della vostra lingua.
Fernando Savater: Lei non ha abbandonato solo la sua patria ma anche, e questo è più importante, la sua lingua. ([1], pp. 33-35)
Cioran: E' il più grave infortunio che possa capitare a uno scrittore, il più drammatico. Al confronto le catastrofi storiche non sono niente. Ho scritto in rumeno fino al 1947. Quell'anno stavo in una casetta nei pressi di Dieppe, e traducevo Mallarmé in rumeno. Improvvisamente mi sono detto: "Che assurdità! A cosa serve tradurre Mallarmé in una lingua che nessuno conosce?". Ed è lì che ho rinunciato alla mia lingua. Mi sono messo a scrivere in francese, il che è stato molto difficile, perché la lingua francese non si addisce alla mia indole: io ho bisogno di una lingua selvaggia, di una lingua da ubriachi. Il francese è stato per me come una camicia di forza. Scrivere in un'altra lingua è un'esperienza terrificante. Si riflette sulle parole, sullo stile. Quando scrivevo in rumeno, lo facevo senza rendermene conto, scrivevo e basta. A quel tempo le parole non erano indipendenti da me. Quando mi sono messo a scrivere in francese, tutte le parole mi sono imposte alla coscienza; le avevo davanti a me, fuori di me, nelle loro cellette, e andavo a prenderle: "Tu, ora, e adesso tu". Un'esperienza simile l'ho avuta appena arrivato a Parigi. Alloggiavo in un alberghetto del Quartiere Latino, e il primo giorno, quando sono sceso alla reception per telefonare, ho trovato il gestore dell'albergo che stava decidendo il menù per il pranzo con la moglie e il figlio: lo preparavano come fosse stato un piano di battaglia! Rimasi stupefatto: in Romania mi ero sempre nutrito come un animale, voglio dire in modo inconscio, senza badare a che cosa significasse mangiare. A Parigi mi sono reso conto che mangiare è un rituale, un atto di civiltà, quasi una presa di posizione filosofica... Allo stesso modo lo scrivere, in francese, ha smesso di essere un atto istintivo, come quando scrivevo in rumeno, e ha assunto una dimensione deliberata, così come ho anche smesso di mangiare in modo innocente... Cambiando lingua, ho subito liquidato il passato: ho completamente cambiato vita. Ancora adesso mi sembra di scrivere in una lingua che non è legata a niente, una lingua senza radici, una lingua di serra.
("Escribir para de spertar", in El Pais, 23 ottobre 1977)
Lea Vergine: Cosa conosce dell'Italia? ([1], pag. 159)
Cioran: Adoro l'Italia. Sono stato fino in Sicilia. Capisco un po' l'italiano, mi intendo subito con un italiano; quando sono in Italia e dico una parola rumena o francese, posso sempre parlare con la gente. I francesi sono intelligenti, ma gli italiani sono più rapidi, capiscono subito ciò che volete dire, anche il popolo. Questo mi ha impressionato. Inoltre ho trovato che vi è una specie di malinconia italiana, credo che l'italiano non sia un uomo felice nel senso comune in cui lo si intende; ha il sentimento di questo gioco universale, molto più che il francese. Non è un popolo tragico, tragico non è la parola giusta: possiede il senso dell'irrealtà, del gioco... Poi c'è il sorriso, anche quando si fa una mascalzonata, c'è un sorriso ed è una forma di saggezza. L'italiano è una lingua poetica, non è vero? Preferisco la prosa francese a quella italiana, poiché la prosa francese ha un rigore straordinario, ma il francese non è una lingua poetica, affatto. L'italiano sì, è impressionante. Dante in francese non è possibile , non passerebbe.
("Il caffè e il nulla", in Il Manifesto, 16 gennaio 1997)
[1] - E.M. Cioran, "Un apolide metafisico. Conversazioni", Adelphi Edizioni, Milano (2004)